Carmine Di Ruggiero

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  CRITICA

La contestazione che oggi un operatore di cultura può attuare nei confronti di una realtà che si presenta a pezzi, nella doppia polarità della visione accelerata (impressione) o dell'estremo evidenziamento è quella di un rilevamento e di una susseguente modifica del dato in formulato.
Ovviamente nella definizione del dato entrano pure i modi istituzionali di visione attraverso cui questo si presenta. Ed allora il compito dell'artista risulta essere quello di riqualificare il dato, dandogli, appunto, una struttura visiva che corrisponda assolutamente alla sua ossatura di base, depurata da sovrastrutture e schemi precostituiti di percezione.
Carmine Di Ruggiero come metodologia del proprio fare ha posto alla base un atteggiamento operativo, che cerca assolutamente di stabilire ed impostare un tipo di visione, in cui le leggi ottico-percettive abbiano un fondamento razionale e cioè verificabile. Per fare ciò egli analizza uno specifico del campo pittorico, lo spazio, con una concezione logico-formale della realtà e cioè la definizione dell'elemento spaziale come estensibilità, che per essere una qualità non può essere contenuta appena nella superficie estetica. Tale concezione di stampo razionalistico, già imposta e presuppone anche l'intenzione da parte dell'artista di scardinare le leggi percettive, che, per la loro stratificazione, hanno dato alla visione un occhio precostituito. Qui appunto si intende modificare tale atteggiamento ed opporre al momento stereotipato della percezione un momento assolutamente rigoroso e sperimentale. Per fare ciò Di Ruggiero parte da una definizione volutamente astratta e cioè formale dello spazio e per realizzare il formulato si serve strategicamente della qualità di congelamento del colore bianco, il quale, distribuito sui piani formanti la superficie del quadro, determina un unico tempo di percezione. Infatti il bianco ha una capacità di notevole espansione e quindi di estroversione dal quadro che provoca un avvicinamento della superficie estetica verso l'esterno, verso la retina dell'occhio dello spettatore. Cosicché il colore riesce a contenere in unica dimensione visiva le profondità dei vari piani sovrapposti e la non emergenza di questi viene realizzata appunto attraverso l'attuazione e la verifica di leggi di percezione cromatica. E proprio dall'analisi esperenziale consegue anche la constatazione dell'attitudine del bianco a stabilire con lo spettatore un rapporto di contemplazione. Un rapporto, che, cosi configurato, presupporrebbe una visione statica della realtà, inconcepibile per l'uomo moderno, il quale si trova posto e trasposto su una scala non più antropocentrica dei valori ma calata direttamente in mezzo agli eventi della situazione storico-esistenziale.
Obbiettivamente l'artista non può non avere coscienza di ciò e naturalmente ribalta nella propria opera la costante indeterminazione, che accompagna i rapporti del singolo con la realtà esterna. Di Ruggiero allora restituisce tale necessaria posizione attraverso la dislocazione asimmetrica dei vari piani, che hanno cosi la tendenza a forzare il centro di gravita della superficie estetica. Si crea cosi una tensione, che supera una ricezione meramente contemplativa dell'opera, tra il congelamento formulato dal colore bianco e l'atteggiamento dei piani che tendono verso l'esterno, oltre i confini del quadro.
Anche i segni disposti sulla superficie che la attraversano, si spezzano ai bordi dell'opera, ad indicare appunto l'impossibilità per essi di esaurirsi solamente nello spazio sezionato dall'operazione estetica. Si crea cosi il rimando obbligato verso la realtà esterna, dove esiste un mercato visivo intensificato dalla presenza di segni istituzionalizzati e dalla qualità dei materiali impiegati per la produzione ed esibizione dei segnali.
Infatti Di Ruggiero usa dei colori industriali, i quali hanno la costante dell'immediata emergenza visiva, cosicché lo spazio estetico non diventa un luogo asettico dove si esibisce una pura forma, bensì una superficie-oggetto dove l'evento è costituito appunto dalla tensione tra il taglio razionale dello spazio e la vitalità riprodotta del contesto industriale. Cosi spesso i piani del quadro tendono ad «entrare» nella realtà esterna al quadro e nello stesso tempo i segni di colore industriale sono disposti in bande nette che trovano una precisa rappresentazione nella linearità appiattita della loro esposizione.
Risulta evidente l'intenzionalità di contestare le leggi della visione, eccessivamente culturalizzate, attraverso la instaurazione di un comportamento ottico-percettivo, che riesca a restituire l'oggetto estetico come struttura visiva pura, che nello stesso tempo conserva fissata su di sé la dislocazione spaziale e l'immagine segnica della realtà circostante, per tendere alla fine alla formulazione di rapporto rigoroso ed oggettivo, cioè continuamente verificabile, con la realtà esterna.

ACHILLE BONITO OLIVA
dal catalogo della mostra alla Galleria “Guida” – Napoli, aprile 1967